Le difficoltà con le quali apprendevo la disciplina erano
immani. I miei movimenti erano impacciati e lenti. Mi trovavo sempre in
anticipo o in ritardo rispetto al resto degli allievi e iniziavo a credere di aver
scelto, per il mio svago, una scuola troppo severa. Dopo due mesi di tentativi
frustranti avevo deciso, seppur a malincuore, che avrei abbandonato il dojo. Prima di lasciare
il gruppo, i cui componenti erano secondo me tutti bravissimi, cercai il coraggio per affrontare il maestro,
salutarlo e ringraziarlo per il suo impegno. Mi avvicinai a lui con
circospezione, ripetendo mentalmente le frasi che avrei usato per il commiato,
ma il suo sguardo mi sorprese ed ebbi ancora una volta la sensazione di essere
fuori tempo e la certezza di aver sbagliato il momento. Il maestro era lì
davanti a me ed io non sapevo come spiegargli quello che mi stava capitando. Il
suo sorriso, d’un tratto, mi parve come un salvagente lanciato ad un naufrago e
le sue parole un invito inderogabile:” Oggi alle sette, dopo la lezione,
preparerò il tè, mi piacerebbe se tu mi facessi compagnia.” Tutto il mio
ripetere a me stesso la mia inadeguatezza, tutta la tensione che avevo
accumulato e buona parte della mia rassegnazione sparirono spiazzati da quel
semplice invito. L’ora di esercizi volò e a me sembrò addirittura di essere più
bravo, il mio ritmo era fluente e i tempi di esecuzione finalmente precisi.
Alle sette in punto mi presentai ansioso all’appuntamento con il mio sensei, il
maestro non c’era ma l’aria già profumava di tè e su un piccolo tavolo basso
c’era una tazza già piena di acqua fumante. Pensai a qualche strano cerimoniale
orientale e rimasi in attesa seduto in silenzio. Il maestro comparve
all’improvviso mentre ancora girovagavo con la mente alla ricerca dei motivi di
quell’invito, in mano aveva una bellissima teiera dalla quale proveniva un
soave profumo di gelsomino. Egli senza degnarmi di uno sguardo si sedette di
fronte a me e, con lentezza studiata, iniziò a versare il preziosissimo tè
nella tazza già colma d’acqua che io avevo davanti. Chiaramente il tè ,
superato il bordo, iniziò a scorrere sul tavolino, quindi raggiunse il
pavimento. Io ero imbarazzato, e pur non
sapendo se, in quanto ospite, per me fosse lecito intervenire, esclamai con un tono di voce che mi sembrò
ridicolo:” Maestro, si sta bagnando il tatami…” Lo sguardo severo del sensei si
mutò in un sorriso:” Vedi! Questa tazza piena d’acqua fumante è la tua mente, non
potrai gustare il mio tè se prima non la svuoti. Se vuoi seguire il dò devi
lasciare i tuoi pensieri fuori da questo luogo, solo così troverai il ki.” Come
avesse fatto a capire i miei dubbi, e quanto avesse studiato il mio
comportamento rimasero per me un mistero; quello di cui fui immediatamente
sicuro è che avrei continuato a seguire
diligentemente la via, ma che la distanza tra me e lui sarebbe rimasta
incolmabile.
continuo ad avere la conferma di somigliarti tanto.
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